Spettacolo
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"The killer": l'ultimo
capolavoro di John Woo
Mattia
Agostinali
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red.:Liceo Classico
"Piazzi"
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Il nome di John Woo gira
nel circuito cinematografico internazionale da circa tre
anni, da quando cioè ha raggiunto il successo con film
d'azione quali "Nome in codice: Broken Arrow"
e, nella stagione successiva, "Face Off". Due
buone pellicole, ma nemmeno paragonabili al capolavoro
del regista e della cinematografia di Hong Kong.
L'ex-colonia britannica è da sempre specializzata in
film in cui il numero di proiettili ed i litri di sangue
versato superano di gran lunga le parole dette. E in
questo nessuna differenza con The killer. Ma, prima di
prendere in esame cosa fa di un normale
"actionmovie" un capolavoro assoluto, è meglio
riassumere in breve la trama.
A Hong Kong Jeffrey, un killer a fine carriera accieca,
nel tentativo di difenderla, una cantante di night,
Jenny, testimone di un agguato. Dopo qualche tempo la
salva da alcuni malviventi e la accoglie con sé, senza
però rivelarle la sua vera identità. Per poter pagare
il trapianto delle cornee che potrebbe evitarle la
completa cecità, accetta di uccidere un importante uomo
politico. Compiuto il lavoro, Jeffrey si trova con la
polizia alle costole ed i mandanti che, impauriti, hanno
comprato il suo migliore amico affinché lo elimini. Ma
il resto toccherà a voi scoprirlo. John Woo non si
limita a mettere insieme scene d'azione, ma fa uno
splendido lavoro di introspezione psicologica su ogni
personaggio. Ne esce un'incredibile galleria di losers,
perdenti nati che accettano la loro condizione ma
conservano uno spiccato senso dell'onore. Anche se
Jeffrey è un killer spietato, Lee Chong lo rispetta
comunque per il rigido codice morale: salva Jenny e cerca
di guarirla e, oltretutto, rischia vita e libertà per
portare all'ospedale una bambinetta ferita dai nemici.
Ci sono forse alcuni stereotipi e luoghi comuni tipici
del classico noir americano, ma bisogna anche dire che
Woo non ha mai fatto mistero del fatto di fare un cinema
di "citazione". D'altronde, come lui stesso
afferma, Hong Kong era il crocevia della cinematografia
internazionale, dove, senza alcuna limitazione,
arrivavano sia film asiatici che europei e americani, e
lui ha imparato molto dai campioni di queste scuole. Woo
lavora senza sceneggiatura. Metodo incredibile, ma
efficacissimo qualora ci sia grande affiatamento tra cast
e troupe: il regista prepara un canovaccio per la scena e
lascia poi liberi gli attori di improvvisare "a
soggetto".
La sua tecnica è veramente eccezionale: anche 15
macchine da presa per ogni scena, poste un po'
dappertutto e messe in funzione contemporaneamente e,
soprattutto, a velocità diverse, con particolare
predilezione per le sequenza rallentate di venti volte.
Tutto unito ad un montaggio splendido, che lascia lo
spettatore senza fiato ed il cinefilo estasiato.
La violenza è messa in scena come un balletto, con gli
stuntmen, indispensabili in questo tipo di cinema,
assoluti protagonisti. E, alla fine, a chi può importare
se una pistola che dovrebbe sparare sei colpi ne spara in
realtà una quarantina? E non c'è solo questo: gli
attori, celebrità in patria ma sconosciuti altrove,
danno un interpretazione sofferta ma intensissima, a
cominciare da Aman Chow Yun-fat, il killer, emigrato poi
con scarsa fortuna negli Stati Uniti. Discorso a parte va
fatto per la colonna sonora, che oscilla tra la scontata
canzonetta d'amore che ritorna ossessivamente come e
l'aria eica, quasi classica alla Coppola.
Durante l'indimenticabile finale, udiamo, in un misto tra
tragedia e ironia, un tema che ricorda molto da vicino
"Super Heroes", canzone conclusiva del
trasgressivo ed epocale Rocky Horror Picture Show.
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