Sono le
8,30 di una splendida giornata e un po' assonnati
ci avviciniamo a Trieste, che attraversiamo quasi
in punta di piedi.
Il sole dorato si rispecchia nelle acque del mare
accecandomi per un istante. Oltrepassiamo il
porto che indica l'approssimarsi della nostra
meta. Improvvisamente il sole che tiepidamente
entrava dai finestrini scompare dietro
un'imponente struttura davanti alla quale il
nostro pullman si arresta.
Una folata d'aria fresca sale prepotentemente
all'apertura delle porte, facendomi rabbrividire.
Ci attende il prof. Calabria, presidente
dell'A.N.P.I. di Trieste, che ci accompagnerà
durante la visita alla Risiera di San Sabba.
Sapevamo già che questo
pesante complesso costruito per la pilatura del
riso, venne poi utilizzato dai nazisti come campo
di prigionia per i militari italiani catturati
dopo l'8 settembre del '43, base di smistamento
verso la Germania e la Polonia, o luogo in cui
venivano eliminati gli ostaggi, i partigiani, i
prigionieri politici e gli Ebrei.
Silenziosamente ci addentriamo in questo cupo
casermone, ma prima di iniziare la visita
accurata, veniamo condotti al centro del cortile
interno dove la guida inizia ad illustrarci la
storia di questo campo.
Mi sforzo di ascoltare, ma la mia attenzione è
sviata da una strana sensazione che mi fa venire
i brividi. Le mura altissime che mi circondano mi
opprimono, mi soffocano e posso cercare respiro
solo nel fazzoletto di cielo che ancora
intravedo.
Non sono passati che 10 minuti dal mio arrivo e
già vorrei fuggire, quando scorgo un cartello
che mi fa accapponare la pelle: l'indicazione
della cella della morte, un piccolo
locale buio in cui venivano rinchiusi i
prigionieri che in capo a poche ore sarebbero
stati uccisi e poi cremati.
La descrizione della nostra guida slovena è
tanto particolareggiata da suscitare in me una
violenta, indescrivibile emozione. Restiamo
immobili, in silenzio per alcuni istanti quasi
per ascoltare i rumori, le voci che sembravano
ancora echeggiare in quei luoghi di disperazione,
quasi lo scorrere del sangue che quelle pareti
scrostate sembravano trasudare.
Ancora più orrenda la visione delle successive
piccole celle. Faccio scorrere lentamente lo
sguardo: ne conto 17. Qui, 6 per stanza, erano
rinchiusi i detenuti in attesa di condanna. Le
prime due venivano utilizzate per la tortura,
sempre spietata, che spesso conduceva alla morte.
I miei compagni escono, ma io mi sento trattenuta
da uno strano impulso colto dal prof. Calabria
che estrae una piccola pila dalla tasca ed
illumina il vestibolo dell'inferno: dei
tormentati graffiti emergono dall'oscurità ed io
non resisto alla tentazione di sfiorare i sottili
solchi incisi disperatamente dai prigionieri. Un
brivido mi corre per la schiena mentre sono
invitata ad uscire.
Nell'edificio adiacente di 4 piani venivano
accomunati uomini, donne e bambini di ogni età
destinati tutti ai campi di Dachau, Auschwitz e
Mauthausen.
E' il momento del forno crematorio semidistrutto
dai nazisti in fuga, ma la cui impronta è
segnata da piastre metalliche che attraversano
tutto il cortile, indicando il passaggio della
canna fumaria diretta alla ciminiera.
Prima dei forni c'era lo stanzone adibito a
spogliatoio che portava a uno stretto
corridoio lungo il quale un soldato colpiva
violentemente alla testa gli sventurati con una
grossa mazza di legno, tramortendoli e in alcuni
casi uccidendoli. Da qui venivano poi infilati
nei forni per eliminarli definitivamente. Le urla
dei condannati venivano coperte dagli schiamazzi
dei soldati o dai guaiti dei cani. Ogni giorno
due ufficiali svuotavano in mare due sacchi pieni
di cenere umana.
La nostra visita prosegue al Civico Museo della
Risiera dove il mio sguardo si posa su una
emblematica fotografia dell'epoca che ritrae una
parete di un forno crematorio su cui campeggia la
scritta
CREDERE,UBBIDIRE,
COMBATTERE.
Accanto vi è un semplice pezzo
di carta ingiallita contenente gli estremi saluti
di un prigioniero alla sua famiglia a poche ore
dalla sua esecuzione.
La visita ormai è terminata,
ma quella sensazione di angosciosa oppressione
non mi abbandona finchè non raggiungo il
corridoio che mi conduce all'uscita.
Mi lascio alle spalle una
testimonianza che ha lasciato in me un segno
indelebile.
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