Qualche
tempo fa, sfogliando un giornale, mi è capitato
di leggere un articolo che raccontava la storia
di Anthony Porter, un uomo di colore, da sedici
anni detenuto nel braccio della morte di una
prigione di Chicago, negli Stati Uniti, che era
stato liberato grazie all'intervento di alcuni
studenti dell'Università di Giornalismo di
Evanston, che avevano provato la sua innocenza.
Un uomo, una persona qualunque, stava per essere
ucciso a causa di un reato che non aveva
commesso.
Oggi, all'alba del terzo
millennio, in moltissimi paesi del mondo è
vigente la pena di morte, cioè il diritto che si
attribuisce lo stato di togliere la vita a un
criminale che ha commesso un grave delitto nei
confronti della società.
Ma cosa può spingere una persona a togliere la
vita ad un suo stesso simile?
I sostenitori della pena capitale trovano ragioni
diverse a sostegno della loro tesi, ragioni di
ordine etico, sociale e anche economico.
Sostengono che il compito fondamentale dello
stato sia difendere ad ogni costo i singoli
individui e la comunità, e che esistono colpe
per cui nessuna pena, tranne la morte,
costituisca la giusta punizione.
Questo modo di pensare, a mio parere, è una
grave sconfitta per tutto il genere umano. Nessun
uomo, né individualmente né come rappresentante
della comunità, ha il diritto di togliere la
vita ad un altro uomo, indipendentemente dalla
gravità delle colpe che quest'ultimo ha
commesso.
In tutti i paesi civili il carcere è considerato
uno strumento di recupero e non di punizione:
quando una persona è condannata a morte resta a
volte per decine d'anni in carcere prima
dell'esecuzione, e dopo tutto questo tempo invece
di essere riabilitata viene uccisa.
Ma quale recupero sul piano sociale ed umano è
possibile attuare nei confronti di un morto? Per
quanto riguarda la funzione deterrente attribuita
alla pena di morte, è semplicistico pensare che
un criminale consulti il codice prima di
commettere un crimine. Inoltre, come nel caso di
Porter, i sistemi giudiziari commettono a volte
terribili errori, e quindi anche solo la
possibilità remota di uccidere un innocente
giustifica l'abolizione della pena stessa.
Se non bastasse, la pena di morte si dimostra uno
strumento di discriminazione sociale: ad essere
condannati sono infatti quasi sempre criminali
che appartengono alle classi sociali più deboli,
come membri delle minoranze razziali o individui
con una bassa scolarizzazione. La stessa società
che permette la disuguaglianza sociale, quando
poi questa è causa di crimini e delitti, si
arroga il diritto di reprimerli con la morte.
Cesare Beccaria ha scritto Come mai nel
minimo sagrificio della libertà di ciascuno vi
può essere quello del massimo tra tutti i beni,
la vita?.
Beccaria non credeva possibile che in quel poco
di libertà a cui l'uomo ha rinunciato per il
bene comune, sia compresa anche la rinuncia a
disporre della propria vita.
Finché la pena capitale esisterà, noi non
potremo considerarci esseri liberi, bensì
schiavi di una società sovrana che decide
tramite la legge chi vive o chi muore. La vita è
una libertà inviolabile di ciascuno di noi ed è
nostro dovere lottare, in ogni situazione,
perché venga rispettata.
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