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La Redazione Il Sommario Lettere al giornale

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Cultura

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Quando la vita genera la morte

Se la storia è maestra di vita

Viaggio in un quadro

Un'avventura drammatica

Il libro d'oro

La laguna blu dei delfini

Tormento e vergogna

Parole in libertà

Concorso Letterario

Quando la vita genera la morte

Daniele Della Valle

red.: I.T.C. "De Simoni"


Qualche tempo fa, sfogliando un giornale, mi è capitato di leggere un articolo che raccontava la storia di Anthony Porter, un uomo di colore, da sedici anni detenuto nel braccio della morte di una prigione di Chicago, negli Stati Uniti, che era stato liberato grazie all'intervento di alcuni studenti dell'Università di Giornalismo di Evanston, che avevano provato la sua innocenza. Un uomo, una persona qualunque, stava per essere ucciso a causa di un reato che non aveva commesso.

Oggi, all'alba del terzo millennio, in moltissimi paesi del mondo è vigente la pena di morte, cioè il diritto che si attribuisce lo stato di togliere la vita a un criminale che ha commesso un grave delitto nei confronti della società.
Ma cosa può spingere una persona a togliere la vita ad un suo stesso simile?
I sostenitori della pena capitale trovano ragioni diverse a sostegno della loro tesi, ragioni di ordine etico, sociale e anche economico. Sostengono che il compito fondamentale dello stato sia difendere ad ogni costo i singoli individui e la comunità, e che esistono colpe per cui nessuna pena, tranne la morte, costituisca la giusta punizione.
Questo modo di pensare, a mio parere, è una grave sconfitta per tutto il genere umano. Nessun uomo, né individualmente né come rappresentante della comunità, ha il diritto di togliere la vita ad un altro uomo, indipendentemente dalla gravità delle colpe che quest'ultimo ha commesso.
In tutti i paesi civili il carcere è considerato uno strumento di recupero e non di punizione: quando una persona è condannata a morte resta a volte per decine d'anni in carcere prima dell'esecuzione, e dopo tutto questo tempo invece di essere riabilitata viene uccisa.
Ma quale recupero sul piano sociale ed umano è possibile attuare nei confronti di un morto? Per quanto riguarda la funzione deterrente attribuita alla pena di morte, è semplicistico pensare che un criminale consulti il codice prima di commettere un crimine. Inoltre, come nel caso di Porter, i sistemi giudiziari commettono a volte terribili errori, e quindi anche solo la possibilità remota di uccidere un innocente giustifica l'abolizione della pena stessa.
Se non bastasse, la pena di morte si dimostra uno strumento di discriminazione sociale: ad essere condannati sono infatti quasi sempre criminali che appartengono alle classi sociali più deboli, come membri delle minoranze razziali o individui con una bassa scolarizzazione. La stessa società che permette la disuguaglianza sociale, quando poi questa è causa di crimini e delitti, si arroga il diritto di reprimerli con la morte.
Cesare Beccaria ha scritto “Come mai nel minimo sagrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita?”.
Beccaria non credeva possibile che in quel poco di libertà a cui l'uomo ha rinunciato per il bene comune, sia compresa anche la rinuncia a disporre della propria vita.
Finché la pena capitale esisterà, noi non potremo considerarci esseri liberi, bensì schiavi di una società sovrana che decide tramite la legge chi vive o chi muore. La vita è una libertà inviolabile di ciascuno di noi ed è nostro dovere lottare, in ogni situazione, perché venga rispettata.

Ultima modifica: 02 maggio 1999